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San Michele Arcangelo

San Michele Arcangelo, difendici nella lotta:
sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio.
Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu,
Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio,
incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni,
che si aggirano per il mondo per far perdere le anime.

Amen.



IL GIGANTE DI MANFRIA
Collina di Manfria anni ’70

introduzione

La “storia” di Manfrino, il buono e sfortunato gigante di Manfria (suggestiva contrada di Gela) è avvolta in una nube di leggenda misteriosa ed incantata, che la tradizione popolare ha via via arricchito di elementi nuovi ed incredibili.

Essa affonda le sue radici nei mitici favolosi tempi dell’oro, immaginato ben nascosto nelle viscere di qualche arcana ed invisibile spelonca di quelle solari colline di Manfria, e – perché no? – a due passi e forse in direzione della famosissima “pedata” di Manfrino.

Non si può dire che circoli una sola “storia” del buon gigante, nella bocca dei vecchi contadini; ma dai vari racconti incredibili balza una cristallina evidenza qualche considerazione: questa secolare, pervicace, spasmodica ricerca del tesoro nascosto ha una sua incontestabile logica, soprattutto, nel ritrovamento di aurei del IV secolo e di altre monete greche e romane.

Altri elementi, poi, e certe condizioni ambientali contribuiscono a legittimare qualche slancio della leggiadra fantasia, che poi, però, corre a briglia sciolta.

Così tutto si trasfigura come per incanto: alcune pietre rozzamente incise, con segni evidenti di antiche combustioni e disposte a mò di ara sacrificale, usate forse per immolarvi vittime umane, diventano ipso facto altarini in cui venivano sgozzati i bambini di terranova (nome federiciano di Gela) per “spignori” col loro sangue innocente il ricco tesoro di Manfria dall’ermetico incantesimo…

Ed ecco che improvvisamente spunta fuori qualcuno per raccontarti di aver visto in quei pressi una stupenda ragazza in adamitico costume, che si trasforma in roccia granitica dalle divine sculturee forme…

E c’è chi giura sui suoi trapassati di avere incontrato l’ombra dello stesso Manfrino aggirarsi inquieta nelle notti di luna piena.

A questo punto verrebbe quasi voglia di credere a questa “storia-leggenda” del Gigante…

Il clima di quell’estate fu quanto mai bizzarro: vento, mare grosso, nebbia ed umidità costrinsero i villeggianti, che trascorrevano le vacanze presso le ville, le villette e le casette della collina di Manfria, a starsene dentro.

Quando le tenebre calavano da firmamento, si sentiva nell’aria il brusio delle cose invisibili: forme incorporee solcavano il cielo oscuro, mentre le voci del vento, soffuse di melodia, si perdevano nella plenitudine del silenzio notturno.

– Hai sentito? – le domandò lui, nel cuore della notte.

– no, non ho sentito niente – rispose lei.

– mi è sembrato di sentire una voce…

– E’ il vento.

Era il vento.

“Manfrino, Manfrino – andava ripetendo il vento – dimmi, dove si trova il tesoro?!”.

E la voce rispondeva:

“Cerca…, cerca…, e troverai!”.

Le acque del mare, spumeggiando e rumoreggiando contro la roccia, facevano eco a quelle parole, mentre il vento, ululando, si allontanava verso oriente.

La collina di Manfria, un tempo ricca di flora e di fauna, riecheggia antichi eventi svoltisi lungo le sue pendici, che, ancor oggi, sono tanto vivi e presenti nell’immaginazione popolare.

Il castello sorgeva in cima ad un poggio di fronte ad un mare d’un azzurro intenso, e dominava tutta la pianura gelose, ricca di bionde messi.

Al tempo in cui venne costruito era un magnifico gioiello di architettura fiabesca, incastonato in una meravigliosa e verde cornice di boschetti rigogliosi – digradanti dolcemente verso la Piana – che limpidi e mormoranti ruscelli attraversavano leggeri come una carezza, rendendo sempre fresca e tenera l’erba punteggiata di fiori profumati.

Gli uccelli riempivano di dolcezza il cielo e la radura circostante col loro inesauribile canto.

Il castello apparteneva alla nobile, ricca e potente famiglia “Manfrina”, signora di quel vasto e fertile feudo che da essa prese il nome di Manfria e che vi abitò per diverse generazioni fino agli ultimi due superstiti, Manfrino e la sorella Manfrina.

Con questi abitava la dama “Provenza” dei conti Montalbano, che aveva poteri fatati e magici nella parte più delicata del corpo.

Manfrino, gigante come i suoi avi, era buono, generoso, forte e coraggioso.

La sera di un lontano dicembre egli diede una festa in onore della sorella. Purtroppo, era destino che quella festa avrebbe segnato la fine della famiglia Manfrina.

Quella sera gli uccelli notturni sembravano essersi dati appuntamento su quelle alture, facendo triste spola tra la fitta vegetazione ed i merli del castello; i cani, nonostante l’abbondante cacciagione dei giorni precedenti, sembravano più smaniosi e irrequieti del solito; ringhiavano sinistramente; un terribile temporale si abbatté improvviso nella contrada: tuoni e vento, pioggia e grandine, lampi e fulmini sembrava sconvolgessero il cielo e la terra; calarono sulla terra le tenebre più fitte.

La dama Provenza, agitata da strani presentimenti, ne fece partecipe lo stesso Manfrino, il quale la rassicurò che niente di male sarebbe accaduto, poiché i cavalieri invitati rappresentavano l’espressione più alta dei casati nobiliari isolani, il cui rigido codice d’onore era universalmente ed indiscutibilmente accettato.

“calmati, Provenza”, le disse Manfrino, “non devi preoccuparti di alcunché! Questi cavalieri non tradiranno l’ospitalità!”. Ed aggiunse: “ ricordati che Manfrino non teme rivali che possano reggere alla sua spada ed alla sua forza!”.

La notte avanzava, il frastuono della musica e delle danze si confondeva con quello della spaventosa bufera; i servi con compita eleganza si alternavano nelle portate, fieri di essere al servizio di un tal gigante che con prodigalità offriva il meglio della sua cucina.

Tutti i convitati apprezzavano i prelibati piatti, preparati da Manfrino, ed elogiavano la bontà del vino prodotto nella vallata e rinomato in tutto il Mediterraneo

La dama Provenza, che con apprensione partecipava al banchetto, venne colpita dalla straordinaria bellezza di un cavaliere, il signore Morgantina, la cui presenza la fece sognare ad occhi aperti, liberandola dall’incubo di quei sogni premonitori.

Mentre Manfrino si intratteneva in un’altra sala, la bellissima Manfrina, ignara di quanto veniva ordito a suo danno dai cavalieri, che ne avevano già deciso il rapimento, gaia e spensierata, allietava con grazia la regale serata.

Nel momento culminante della serata, i cavalieri si scagliarono con le armi in pugno sulla servitù, massacrando quanti cercavano di difendere la fanciulla.

Fu un susseguirsi di grida, di urla, di lamenti angosciosi, di imprecazioni terribili.

“Tradimento!…, Tradimento!…” – si mise a gridare la dama Provenza, col cuore in gola.

Richiamato dalle grida Manfrino piombò come un fulmine e si mise a menar botte  da orbi e dritta e a manca.

I traditori, avuta la peggio, non trovarono di meglio che fuggire precipitosamente dal castello, inseguiti dal gigante che aveva intanto impugnato la spada e cavalcato il suo destriero.

La dama Provenza, che nel frattempo si era armata di una grossa mazza, si univa a lui e riusciva a stendere per terra contemporaneamente sette cavalieri ad ogni colpo.

Ma i fuggiaschi, non appena si riebbero dallo stordimento, non rassegnandosi all’umiliazione subita e consapevoli della loro superiorità numerica, decisero di affrontarlo con tutto l’impeto di cui erano capaci e gli tesero un mortale agguato.

Che cosa tramarono dunque?

Non appena gli furono di fronte ne colpirono l’aggressivo e focoso cavallo che, in un supremo sforzo di tensione, impresse con violenza il proprio zoccolo sulla nuda roccia calcarea, lasciandovi la viva e gigantesca impronta seguita dal possente piede del cadente Manfrino suggellando con l’orma del suo piede la stessa roccia..

Immediatamente dopo si scagliarono su Manfrino, che, colpito in più parti del corpo, veniva preso ed incatenato, per poi abbandonarlo agonizzante.

l’impronta è ancor oggi visibile e reale

La dama Provenza, mentre si chinava sul corpo del cavaliere di Morgantina per baciarlo, veniva colpita a morte dall’infame e finto morto col pugnale nella parte fatale del corpo.

Manfrino, malgrado le mortali ferite, riusciva ad arrampicarsi sulle rocce e a portarsi dentro il castello. Qui trovava la sorella senza vita in un lago di sangue, mentre i malfattori cercavano di trascinare fuori i pesanti forzieri contenenti gli immensi tesori accumulati da secoli dalla famiglia Manfrina.

Il gigante allora, rivolgendosi al cielo, ne chiese l’intervento, pronunciando misteriose e struggenti parole dal cui incantesimo si creò un vortice pauroso che risucchiò uomini e cose facendoli sprofondare nelle viscere della terra.

Questa è la leggenda che diede origine all’incantesimo di Manfria e del suo tesoro nascosto.

Si dice pure che un frate, morto in odore di santità, sia riuscito a decifrare dopo trentatré anni di studio uno strano ed antico documento conservato nella biblioteca del vecchio convento dei cappuccini.

Il suddetto documento ha fatto individuare la collina di Manfria il sito dove si trova il tesoro, comprendente tra l’altro l’armatura tutta d’oro di un guerriero, ed ha svelato il rituale con cui si può “spignari a truvatura” (levar l’incantesimo).

LETTERA DI GESU’ CRISTO

Copia di una lettera di Orazione, trovata nel Santo Sepolcro di Nostro Signore Gesù Cristo in Gerusalemme, conservata in una scatola d’argento da sua Santità e dagli Imperatori e Imperatrici della Fede Cristiana. Santa Elisabetta, regina d’Ungheria, S. Matilde e S. Brigida, volendo sapere qualche cosa su la Passione di Gesù Cristo, offrirono ferventi preghiere, per le quali apparve. E Gesù Cristo parlò nel modo seguente:

Sappiate che i soldati armati furono 150; quelli che mi condussero legato furono 23; gli esecutori di giustizia 83; i calci nelle spalle 80; fui trascinato con corde e per i capelli 24 volte; gli sputi nella faccia furono 180; le battiture nel corpo 6666; nel capo 110;

Mi urtarono rozzamente ed alle ore 24 fui sollevato in aria per i capelli; fui tirato e trascinato per la barba 23 volte; le piaghe della testa furono 20; le spine di giunchi marini 22; punture di spine alla testa 110; spine mortali della fronte 3; fui vestito per scherzo da re e fui flagellato; le piaghe del corpo furono 1000; i soldati che mi condussero al Calvario furono 608; quelli che mi guardarono furono 3; quelli che mi derisero furono 1008; le gocce di sangue che sparsi furono 28430.

Io sono disceso dal Cielo sulla terra per convertirvi.

Anticamente i popoli erano religiosi ed i raccolti erano ricchi ed abbondanti; ora al contrario sono scarsi. Se volete avere un abbondante raccolto, non dovete lavorare di Domenica. Perché alla Domenica dovete andare in Chiesa a pregare il Signore perché perdoni i vostri peccati. Iddio vi ha dato sei giorni per lavorare ed uno per riposare e pregare; fate elemosina ai poveri ed aiutate la Chiesa.

Coloro che parleranno male della mia religione e metteranno in ridicolo questa Santa Lettera, saranno abbandonati da me.

Al contrario, quelli che porteranno una copia di questa lettera addosso, non morranno né annegati, né di morte improvvisa. Saranno liberati dalle malattie contagiose e saranno salvati dal fulmine; saranno altresì liberati dai loro nemici. Dai falsi testimoni e dalle mani della Giustizia; essi non morranno senza confessione.

Le donne in pericolo per parto, tenendo una copia di questa Lettera vicino, saranno immediatamente liberate da ogni pericolo. Nelle case dove è tenuta questa Orazione, questa, uomo o donna, avrà l’apparizione della Beata Vergine, come dice San Gregorio.

Un Capitano Spagnuolo, viaggiando vicino a Barcellona, vide per terra una testa recisa dal busto, che gli parlò così: “Giacché vi portate a Barcellona, o viaggiatore, mandatemi un Prete, acciocché mi possa confessare. Sono già 3 giorni che sono stato assalito fai ladri e non posso morire senza prima essermi confessato”. Il Capitano condusse il Confessore sul posto; la testa vivente si confessò e quindi spirò. Sul corpo, dal quale il capo era stato staccato, fu trovata la presente Orazione, che in quell’occasione fu approvata da parecchi tribunali dell’Inquisizione e dalla Regina di Spagna. I suddetti Pater, Ave e Gloria possono essere recitati a beneficio di qualsiasi anima.

Altra simile copia della suddetta Lettera è stata trovata in una località chiamata “Pursit”, a tre leghe da Marsiglia, scritta in lettere d’oro, e per opera divina, portata da un fanciullo di sette anni, della stessa località di Pursit; con una appendice ad una dichiarazione del 2 Gennaio 1750 che dice: “Tutti colo che lavoreranno la Domenica saranno da me maledetti, poiché nel giorno sacro dovete riposare, andare in Chiesa, attendere ai Divini Servizi, così che voi e la vostra generazione sarete benedetti. Se, al contrario, voi non crederete a questo, sarete castigati, ed ai vostri figli manderò peste, fame e guerra, spasimi e pene di cuore; vi mostrerò la mia collera con segni nel cielo, con tuoni e terremoti.

Coloro che non credono che questa Lettera sia scritta per opera divina e dettata dalla Sacra Bocca di Cristo, e la terranno nascosta alle altre persone, saranno maledetti da Dio e condannati nel giorno del Giudizio: e coloro che la pubblicheranno, anche se hanno peccato molto ed ingiuriato il prossimo, purché siano realmente pentiti di avermi offeso e mi chiedano perdono, avranno da me cancellati i loro peccati: coloro che copieranno questa Lettera, o la leggeranno, od indurranno altri a leggerla, saranno liberi da ogni tentazione”