IL GIGANTE DI MANFRIA
Collina di Manfria anni ’70

introduzione

La “storia” di Manfrino, il buono e sfortunato gigante di Manfria (suggestiva contrada di Gela) è avvolta in una nube di leggenda misteriosa ed incantata, che la tradizione popolare ha via via arricchito di elementi nuovi ed incredibili.

Essa affonda le sue radici nei mitici favolosi tempi dell’oro, immaginato ben nascosto nelle viscere di qualche arcana ed invisibile spelonca di quelle solari colline di Manfria, e – perché no? – a due passi e forse in direzione della famosissima “pedata” di Manfrino.

Non si può dire che circoli una sola “storia” del buon gigante, nella bocca dei vecchi contadini; ma dai vari racconti incredibili balza una cristallina evidenza qualche considerazione: questa secolare, pervicace, spasmodica ricerca del tesoro nascosto ha una sua incontestabile logica, soprattutto, nel ritrovamento di aurei del IV secolo e di altre monete greche e romane.

Altri elementi, poi, e certe condizioni ambientali contribuiscono a legittimare qualche slancio della leggiadra fantasia, che poi, però, corre a briglia sciolta.

Così tutto si trasfigura come per incanto: alcune pietre rozzamente incise, con segni evidenti di antiche combustioni e disposte a mò di ara sacrificale, usate forse per immolarvi vittime umane, diventano ipso facto altarini in cui venivano sgozzati i bambini di terranova (nome federiciano di Gela) per “spignori” col loro sangue innocente il ricco tesoro di Manfria dall’ermetico incantesimo…

Ed ecco che improvvisamente spunta fuori qualcuno per raccontarti di aver visto in quei pressi una stupenda ragazza in adamitico costume, che si trasforma in roccia granitica dalle divine sculturee forme…

E c’è chi giura sui suoi trapassati di avere incontrato l’ombra dello stesso Manfrino aggirarsi inquieta nelle notti di luna piena.

A questo punto verrebbe quasi voglia di credere a questa “storia-leggenda” del Gigante…

Il clima di quell’estate fu quanto mai bizzarro: vento, mare grosso, nebbia ed umidità costrinsero i villeggianti, che trascorrevano le vacanze presso le ville, le villette e le casette della collina di Manfria, a starsene dentro.

Quando le tenebre calavano da firmamento, si sentiva nell’aria il brusio delle cose invisibili: forme incorporee solcavano il cielo oscuro, mentre le voci del vento, soffuse di melodia, si perdevano nella plenitudine del silenzio notturno.

– Hai sentito? – le domandò lui, nel cuore della notte.

– no, non ho sentito niente – rispose lei.

– mi è sembrato di sentire una voce…

– E’ il vento.

Era il vento.

“Manfrino, Manfrino – andava ripetendo il vento – dimmi, dove si trova il tesoro?!”.

E la voce rispondeva:

“Cerca…, cerca…, e troverai!”.

Le acque del mare, spumeggiando e rumoreggiando contro la roccia, facevano eco a quelle parole, mentre il vento, ululando, si allontanava verso oriente.

La collina di Manfria, un tempo ricca di flora e di fauna, riecheggia antichi eventi svoltisi lungo le sue pendici, che, ancor oggi, sono tanto vivi e presenti nell’immaginazione popolare.

Il castello sorgeva in cima ad un poggio di fronte ad un mare d’un azzurro intenso, e dominava tutta la pianura gelose, ricca di bionde messi.

Al tempo in cui venne costruito era un magnifico gioiello di architettura fiabesca, incastonato in una meravigliosa e verde cornice di boschetti rigogliosi – digradanti dolcemente verso la Piana – che limpidi e mormoranti ruscelli attraversavano leggeri come una carezza, rendendo sempre fresca e tenera l’erba punteggiata di fiori profumati.

Gli uccelli riempivano di dolcezza il cielo e la radura circostante col loro inesauribile canto.

Il castello apparteneva alla nobile, ricca e potente famiglia “Manfrina”, signora di quel vasto e fertile feudo che da essa prese il nome di Manfria e che vi abitò per diverse generazioni fino agli ultimi due superstiti, Manfrino e la sorella Manfrina.

Con questi abitava la dama “Provenza” dei conti Montalbano, che aveva poteri fatati e magici nella parte più delicata del corpo.

Manfrino, gigante come i suoi avi, era buono, generoso, forte e coraggioso.

La sera di un lontano dicembre egli diede una festa in onore della sorella. Purtroppo, era destino che quella festa avrebbe segnato la fine della famiglia Manfrina.

Quella sera gli uccelli notturni sembravano essersi dati appuntamento su quelle alture, facendo triste spola tra la fitta vegetazione ed i merli del castello; i cani, nonostante l’abbondante cacciagione dei giorni precedenti, sembravano più smaniosi e irrequieti del solito; ringhiavano sinistramente; un terribile temporale si abbatté improvviso nella contrada: tuoni e vento, pioggia e grandine, lampi e fulmini sembrava sconvolgessero il cielo e la terra; calarono sulla terra le tenebre più fitte.

La dama Provenza, agitata da strani presentimenti, ne fece partecipe lo stesso Manfrino, il quale la rassicurò che niente di male sarebbe accaduto, poiché i cavalieri invitati rappresentavano l’espressione più alta dei casati nobiliari isolani, il cui rigido codice d’onore era universalmente ed indiscutibilmente accettato.

“calmati, Provenza”, le disse Manfrino, “non devi preoccuparti di alcunché! Questi cavalieri non tradiranno l’ospitalità!”. Ed aggiunse: “ ricordati che Manfrino non teme rivali che possano reggere alla sua spada ed alla sua forza!”.

La notte avanzava, il frastuono della musica e delle danze si confondeva con quello della spaventosa bufera; i servi con compita eleganza si alternavano nelle portate, fieri di essere al servizio di un tal gigante che con prodigalità offriva il meglio della sua cucina.

Tutti i convitati apprezzavano i prelibati piatti, preparati da Manfrino, ed elogiavano la bontà del vino prodotto nella vallata e rinomato in tutto il Mediterraneo

La dama Provenza, che con apprensione partecipava al banchetto, venne colpita dalla straordinaria bellezza di un cavaliere, il signore Morgantina, la cui presenza la fece sognare ad occhi aperti, liberandola dall’incubo di quei sogni premonitori.

Mentre Manfrino si intratteneva in un’altra sala, la bellissima Manfrina, ignara di quanto veniva ordito a suo danno dai cavalieri, che ne avevano già deciso il rapimento, gaia e spensierata, allietava con grazia la regale serata.

Nel momento culminante della serata, i cavalieri si scagliarono con le armi in pugno sulla servitù, massacrando quanti cercavano di difendere la fanciulla.

Fu un susseguirsi di grida, di urla, di lamenti angosciosi, di imprecazioni terribili.

“Tradimento!…, Tradimento!…” – si mise a gridare la dama Provenza, col cuore in gola.

Richiamato dalle grida Manfrino piombò come un fulmine e si mise a menar botte  da orbi e dritta e a manca.

I traditori, avuta la peggio, non trovarono di meglio che fuggire precipitosamente dal castello, inseguiti dal gigante che aveva intanto impugnato la spada e cavalcato il suo destriero.

La dama Provenza, che nel frattempo si era armata di una grossa mazza, si univa a lui e riusciva a stendere per terra contemporaneamente sette cavalieri ad ogni colpo.

Ma i fuggiaschi, non appena si riebbero dallo stordimento, non rassegnandosi all’umiliazione subita e consapevoli della loro superiorità numerica, decisero di affrontarlo con tutto l’impeto di cui erano capaci e gli tesero un mortale agguato.

Che cosa tramarono dunque?

Non appena gli furono di fronte ne colpirono l’aggressivo e focoso cavallo che, in un supremo sforzo di tensione, impresse con violenza il proprio zoccolo sulla nuda roccia calcarea, lasciandovi la viva e gigantesca impronta seguita dal possente piede del cadente Manfrino suggellando con l’orma del suo piede la stessa roccia..

Immediatamente dopo si scagliarono su Manfrino, che, colpito in più parti del corpo, veniva preso ed incatenato, per poi abbandonarlo agonizzante.

l’impronta è ancor oggi visibile e reale

La dama Provenza, mentre si chinava sul corpo del cavaliere di Morgantina per baciarlo, veniva colpita a morte dall’infame e finto morto col pugnale nella parte fatale del corpo.

Manfrino, malgrado le mortali ferite, riusciva ad arrampicarsi sulle rocce e a portarsi dentro il castello. Qui trovava la sorella senza vita in un lago di sangue, mentre i malfattori cercavano di trascinare fuori i pesanti forzieri contenenti gli immensi tesori accumulati da secoli dalla famiglia Manfrina.

Il gigante allora, rivolgendosi al cielo, ne chiese l’intervento, pronunciando misteriose e struggenti parole dal cui incantesimo si creò un vortice pauroso che risucchiò uomini e cose facendoli sprofondare nelle viscere della terra.

Questa è la leggenda che diede origine all’incantesimo di Manfria e del suo tesoro nascosto.

Si dice pure che un frate, morto in odore di santità, sia riuscito a decifrare dopo trentatré anni di studio uno strano ed antico documento conservato nella biblioteca del vecchio convento dei cappuccini.

Il suddetto documento ha fatto individuare la collina di Manfria il sito dove si trova il tesoro, comprendente tra l’altro l’armatura tutta d’oro di un guerriero, ed ha svelato il rituale con cui si può “spignari a truvatura” (levar l’incantesimo).